
Non è passato molto tempo dalla mia prima esplorazione nel mondo dell’Akasha e sono ancora scosso e anche un po’ turbato da quello che ho visto e sentito.
Avevo letto e considerato ogni singola parola su quell’argomento, eppure non ero pronto quando le porte dell’altra dimensione mi hanno lasciato passare. Ora iniziavo a recriminare con me stesso e ad essere irrequieto, avevo perso l’occasione per fare le mie domande, per fare chiarezza, o almeno per iniziare a farlo.
La Mistica non era ancora tornata da allora e le sue parole risuonavano spesso nella mia mente agitata: “ricorda che non è in Akasha che devi cercare le risposte, quelle sono da sempre dentro di te.” Avevo sempre finto di accettare di buon grado quel limite, ma in realtà era una bugia che si era trasformata in un’abitudine, era diventata scontata. Ero scettico e non credevo ancora che esistesse davvero quel luogo e dunque ero venuto a patti con le sue regole e con quelle della mia Maestra, dicendo a me stesso che se mai ci fossi davvero arrivato avrei di sicuro fatto le mie domande e preteso le mie risposte.
Ora che era successo, tutto era terribilmente diverso e reale e le domande erano ancora dentro di me; delle risposte, però, neppure l’ombra, o almeno, così mi pareva.
Decisi che sarei partito di nuovo e da solo – quindi – al diavolo la Mistica e le sue formule antiche, sarei tornato per interrogare quei Guardiani su di me, sul mio passato e sul mio futuro.
Mentre facevo quei pensieri ero arrivato all’ascensore del grande palazzo dove, da qualche mese, avevo aperto il mio nuovo ufficio, dopo i miei anni difficili, quelli che chiamavo sorridendo “la lunga fine”.
Per quasi sei anni ero stato in bilico, sospeso tra due mondi e incapace di sceglierne uno, dove andare o dove restare; avevo vissuto come un animale a cui qualcuno aveva spalancato la via d’uscita dalla gabbia, ma che era ormai incapace di correre verso la libertà; gli era stata tolta tanto tempo prima, così tanto da averla dimenticata, da non sentire più il suo richiamo, da non credere più nella sua esistenza.
Ora il tempo del dubbio era finalmente finito e con esso era svanita la paura, ed erano arrivate le occasioni e le domande. Cercavo risposte, il perché di ogni singola ferita che adesso avevo il coraggio di accarezzare e guardare senza timore, non mi faceva più paura la pelle strappata, non provavo neppure rabbia per i segni profondi che deturpavano la mia coscienza e la mia anima. Volevo ritrovare ogni cosa, conoscevo gli effetti ma volevo approdare alla causa, accettavo le conseguenze e volevo vedere quali fossero state le scelte compiute per ognuna di quelle.
Una settimana prima quell’ascensore si era aperto e li avevo visti di fronte a me: lui aveva lo sguardo basso e lei mi fissava con la sua consueta maschera, impeccabile. Indossava un cappello a falde larghe, elegante e lussuoso, senza tempo e mostrava priva di remore la sua bellezza ancora prorompente.
Charles sembrava squadrarmi dal basso verso l’altro, e quando i miei occhi incrociarono i suoi, mi sorrise con autentica gioia, eravamo stati amici e quei legami non si cancellano, nonostante tutto e malgrado la vita voglia a tutti i costi spezzare ciò che lega due uomini che si sono chiamati a lungo fratelli.
“Come sempre invidi le mie scarpe…”, gli avevo detto con un tono talmente divertito che lui stesso non potè fare a meno di scoppiare a ridere.
“Amico mio…”, aveva risposto, e ci eravamo abbracciati forte. Avevo riconosciuto ancora il profumo che molti anni prima avevamo condiviso. Nel frattempo ne erano andati e venuti cento nei miei cassetti, ma Charles doveva averlo scelto per sempre, lui era così, innamorato di poche cose e terrorizzato dai cambiamenti, sempre convinto che i Demoni del suo passato potessero ritornare.
E così era ancora accanto a Virginia, la sua seconda moglie, la donna della sua vita, il suo motivo per tutto, la sua padrona.
Avevo salutato anche lei con un abbraccio e un bacio e anche il suo profumo non mi era nuovo.
“Che ci fate qui ?” gli avevo chiesto.
La risposta di Charles era stata immediata: “Siamo venuti a cercare te”, “ci serve il tuo aiuto, abbiamo grandi notizie”.
Mi ero fatto seguire di nuovo fino al tredicesimo piano e li avevo fatti accomodare nella saletta per le riunioni più ristrette e discrete, era arredata con gusto e molto accogliente e ci tenevo i miei pezzi migliori, dopotutto si trattava di un amico autentico; quanto a lei, non avevo mai subito il fascino della sua facciata dipinta e ho sempre saputo che qualcosa di molto diverso era nascosto dietro a quella parvenza così attraente.
Ci sedemmo intorno al piccolo tavolo rotondo e bevemmo il mio caffè italiano. Dopo quella parentesi conviviale, vennero al dunque e fu lui, come sempre, a parlare: dell’idea, delle circostanze e di lei, a cui riservava sempre un posto speciale nella sua narrazione. Mi sorprendeva ancora vederlo, metterla sul gradino più alto di qualsiasi altro, attribuirle meraviglie e dichiararle il suo amore.
Eppure era lui ad avere il merito; ogni cosa, ogni risultato, ogni pezzo del mosaico di benessere, bellezza e ostentazione che faceva da sfondo alla loro vita era stato costruito e incastrato da lui in quel disegno complicato e difficile. Lo avevo visto sfinirsi e combattere per tenere in piedi quelle apparenze, e subito dopo far sparire le tracce della sua fatica, mettersi in faccia il suo sorriso fasullo e correre incontro alla vita che sembrava così facile.
Ascoltai l’dea e mi feci spiegare il progetto; era bello e poteva realizzarsi. Dissi che li avrei aiutati, sebbene sapessi di essere in difficoltà per i troppi impegni simultanei. Confidavo che la dedizione di Charles a quella donna mi avrebbe reso tutto più facile, come sempre.
Due giorni dopo stavo lavorando sulla struttura dell’operazione e lo chiamai per un dettaglio. La voce con cui mi rispose era diversa e riconobbi la sua vibrazione. “Che succede Charlie…?” esordii, nel tentativo di sdrammatizzare usando il vezzeggiativo che lo metteva in imbarazzo.
“Non è niente” rispose, “devo solo aspettare che passi questo momento e poi sarà tutto a posto”.
Qualcosa aleggiava su di me, una strana energia densa andava e veniva tra noi come se percorresse lo spazio fisico che ci separava e si materializzasse; la sentivo e potevo quasi vederla, aveva una forma e conteneva informazioni.
Per un attimo sentii anche un profumo insolito e fu come se qualcosa mi stringesse lo stomaco, torcendomi dentro; io ne ero totalmente in balia, ero inerme in quella presa di ferro.
Conclusi la telefonata in fretta e mi lasciai andare sulla mia poltrona, ero stanco e sofferente, come se…avessi visto dentro di lui. Quello che si era mostrato era triste e duro, insuperabile, era un anatema antico e maligno.
Quella sera ero inquieto e il pensiero della mia Maestra mi venne in aiuto, ricordandomi il mio dono.
La Mistica abitava nel mio mondo interiore da sempre e sebbene ci avessi impiegato un po’ a ricordarlo, mi aveva consegnato molti, preziosi insegnamenti. Tra questi c’era una frase che non avevo ancora compreso, fino ad allora: “le persone che arrivano nella tua vita hanno sempre un compito, una funzione. Questo vale tanto per quelle per cui provi un naturale trasporto che per quelle che soffri, a cui ti ribelli e contro le quali senti un’avversione istintiva. Chiediti cos’è che ti irrita tanto di fronte a qualcuno ed alle sue parole, al suo agire; se saprai andare in profondità, capiterà che proprio attraverso quella persona comprenderai qualcosa di importante su te stesso.”
“Io so che tu possiedi un dono e che si manifesterà quando saprai rinunciare a pretendere dagli altri quello che ti manca.”
Effettivamente, dopo la mia “lunga fine” riuscivo a resistere alla tentazione di reagire davanti a chi non era come me; anzi, da un po’ ero attratto dalle persone che incontravo e che mi apparivano subito molto diverse da quello che giudicavo “compatibile” con me.
Così quella sera stavo rimuginando sul mio incontro con Charles e Virginia e qualcosa sembrava volermi parlare, qualcuno di loro mi aveva lasciato alle prese con qualcosa di incompiuto, sospeso, qualcosa che aspettava di mostrarsi.
Andai a casa, passando prima dal mio ristorante indiano preferito, aveva un nome talmente comune che credo ce ne fossero altri due o trecento in tutta Londra, “Ganesh”, e quando mi trovai davanti alla sua piccola insegna luminosa pensai che dovevo essere uno spettacolo buffo, mentre scendevo dalla mia grossa e appariscente auto italiana, parcheggiata come sempre in modo approssimativo, e ritiravo la busta di carta dalle mani di Bhumindra, il giovanissimo figlio di Ishwar, il cuoco-imprenditore-Guru che era diventato mio amico negli anni del buio.
Ishwar era tra le persone arrivate a me con un compito preciso: mi aveva insegnato a leggere gli Upanishad, a rimanere in silenzio e a meditare. Tra l’atro faceva le “bacche di rose” (gulab jamun) più buone che avessi mai assaggiato.
Quella sera osservavo i miei pensieri proprio come lui mi aveva detto spesso e ancora una volta mi ero sorpreso a volgere il mio sguardo e il mio interesse a ciò che qualcun altro avrebbe pensato di me.
Feci la mia cena tranquilla e mi preparai per dormire.
Sul comodino tenevo la “mia pietra”, un amuleto che abitualmente era considerato femminile, per le sue proprietà e per l’inevitabile tendenza del mondo a classificare ogni cosa. Era tagliata a forma di cuore e aveva un’incisione leggera su di una faccia. Non sapevo ancora da dove venisse.
La misi sotto al cuscino e la tenni in mano accarezzando quella trama. Mi addormentai.
Mi svegliai con una sensazione di oppressione proprio sotto al diaframma, qualcosa sembrava impedirmi di respirare bene e un peso premeva sul mio terzo Chakra.
In quello stato di torpore e nebbia mentale provai a resistere al malessere e mi girai su di un fianco, anche il Cuore avvertì il peso e iniziai stare male.
La mia mente si era ripresa il controllo e i pensieri analizzavano cosa potesse avermi provocato quel malessere, ricordai la cena e le gulab jamun.
Ricordai anche Ishwar e fu allora che capii che era inutile dimenarsi e resistere ancora, mi rimisi supino e posi entrambe le mani sul punto dove avvertivo quel peso. Avevo ancora gli occhi chiusi e non mi fu difficile prendere la decisione di guardare dentro di me e respirare lentamente e profondamente, come la Mistica e Ishwar mi avevano insegnato a fare, concentrandomi esclusivamente sul flusso dolce e ritmico dell’aria che entrava e usciva dai polmoni, amichevole e fresca, restituendomi la mia calma e la mia tranquillità. Adesso seguivo soltanto il flusso armonioso e ininterrotto del respiro, l’aria riempiva il mio torace e il suo prezioso ossigeno si diffondeva nel sangue fino alle periferie più remote del mio corpo addormentato e rilassato, i pensieri si diluivano e perdevano consistenza, finchè non si fece il vuoto e il buio divenne il posto più accogliente e luminoso in cui stare, c’era pace lì e io potevo produrre qualsiasi cambiamento in quella dimensione.
Feci entrare Charles e lo osservai, mentre lui non poteva vedermi.
Era impegnato come sempre nel suo ufficio, che era stato anche il mio ufficio e dove avevo trascorso molti anni. Era rimasto a lui dopo il nostro addio, come ogni altra cosa. Era evidentemente agitato e mi trasmetteva una sensazione distorta, sembrava che i suoi movimenti producessero un suono stridulo, vederlo feriva la mia energia, avvertivo il peso sul plesso solare e capii che c’era qualcosa dentro di me che pretendeva di essere lasciata uscire. Allora prestai attenzione a qual suono disarmonico e acuto e iniziai a sentire i suoi pensieri, era come se parlasse e le sue parole diventavano sempre più chiare e distinguibili. Adesso sentivo perfettamente tutto e anche le parole di Virginia che era apparsa nella stanza. Ero stato io a vederla, avevo semplicemente allargato il campo di osservazione con la volontà con l’intenzione. Non era nella sua consueta forma, la sua pelle tradiva i segni del tempo e la differenza di età con Charles adesso era evidente, sebbene anche lui avesse modificato il suo aspetto per sembrare più vecchio e più simile a lei.
Li vedevo entrambi come non avevo mai fatto prima, non erano amici e neppure amanti, erano soci. Parlavano di me e di ciò che era necessario fare per estromettermi dagli affari comuni e appropriarsi di ogni cosa. Lei era autoritaria, ma alle affermazioni decise alternava un atteggiamento indulgente e mellifluo, cercava chiaramente di indurlo a superare qualche remora per i nostri anni di amicizia e fratellanza. Gli disse chiaramente che io non avrei portato altro che guai e che era ora che lui assumesse il controllo, che si prendesse ciò che gli spettava e il suo ruolo di capo del gruppo.
L’atmosfera era greve e pesante e per un attimo fui pervaso da un senso di nausea, ebbi un moto istintivo e violento simile a quelli di un tempo passato, ma non c’era alcuna convinzione in quei pensieri, erano tiepidi e privi di determinazione.
Improvvisamente si fece spazio una profonda tranquillità, vedevo nel suo cuore, vedevo il mio amico per quello che era davvero e non per quello che avrei voluto. Non provavo alcun risentimento e nessuna desiderio di vendicarmi; al contrario, sentivo che il peso che mi aveva schiacciato quella notte, il peso di anni ed anni trascorsi nell’inconsapevolezza e nell’ignoranza. Anni di finzioni, recite e vita raccontata, anni regalati a chi aveva disperato bisogno della mia energia e del mio potere per nutrirsene e salvarsi dalla sua povertà e dal suo deserto. Anni in cui la mia anima era stata depredata, il mio cuore sbranato da lupi che accoglievo come fossero agnelli.
Avevo un disperato bisogno del loro affetto, dell’amicizia, dell’approvazione, o credevo di averlo e così ho lasciato che saccheggiassero il mio talento.
Quella notte ero io a vedere e loro ad essere scoperti, si stava compiendo una magia, accarezzavo il dorso ruvido dell’amuleto che stringevo in mano e le maschere cadevano in pezzi, mostrando la realtà impietosa e il suo volto deturpato dalla recita.
Il mio pollice sfregava quel talismano potente e la pelle dipinta sulla superficie delle facce dei miei parassiti si sfogliava allo stesso tempo; stavo cambiando la realtà, la stavo rivelando, aprivo l’orizzonte, gli occhi, il mio cuore.
Stavo bene adesso, e percepivo un grande potere.
A quel punto fu Virginia a mostrarsi. Vidi il giorno in cui l’avevo conosciuta e Charles l’aveva portata a cena per presentarmela. Era vestita con cura e profumava intensamente…
Un abito a sacco verde chiaro fingeva di nascondere un corpo forte e sinuoso, senza tempo e le caviglie sottili erano esaltate dalle scarpe accollate e dai tacchi sottili ed eleganti.
Qualsiasi altro dettaglio sul viso, gli occhi e i capelli sarebbe rischioso in questo racconto e dunque non vi trova posto.
Ci sedemmo dopo aver percorso alcuni metri al seguito della giovane maitre de salle, e percepivo il suo compiacimento: per il posto elegante, per gli sguardi degli avventori e per la mia attenzione.
Lui era ancora sposato e ci precedeva. Nonostante la barba lunga, sembrava un bambino e non certamente il suo amante, tantomeno davano l’idea che tra loro ci fosse una liaison dangerouse. Quanto a me, non mi curavo di cosa potessi apparire in quel quadro così assortito, seguivo la danza del suo abito corto e il ritmo delle gambe tornite, e mi era sufficiente, insieme all’idea di quello che avremmo bevuto.
Erano altri tempi, quei tempi, e non disponevo di alcuno strumento per svelare l’incantesimo, e neppure per immaginare che ci fosse un incantesimo in cui mi agitavo come una comparsa. Tutto era solido e chiaro in quel momento.
La serata fu piacevole, lo Chablis Premiere Cru di Albert Pic altrettanto, e alla fine le mie arti percettive si erano affilate e distinguevo nettamente il profumo e le vibrazioni invisibili che lo accompagnavano.
All’uscita mi offrii di accompagnarla nella direzione del suo albergo.
Fu una disattenzione imperdonabile, ma allora non mi accorsi di nulla e presi la sua immediata replica come un atto di cortesia, nient’altro.
Oggi i miei occhi sono cambiati e rivedo la scena con l’aiuto della chiaroveggenza, posso distinguere voci e dialoghi avvenuti dopo che ci eravamo lasciati e anche udire nettamente i loro pensieri.
E’ una sensazione strana e molto difficile da sostenere in principio. C’è un brusio confuso che si fa pian piano più distinto e imparo a dividere i pensieri e le voci, ad attribuire le parole ora all’uno, ora all’altro, decifro il codice universale e finalmente tutto si dispone con chiarezza davanti a me.
Padrone dell’alchimia, inizio da lui. E’ irritato, geloso e risentito ma non ha il coraggio di dirle ciò che sente e soprattutto che la ritiene responsabile della sua frustrazione. Allora inizia la recita: “è sempre il solito narcisista, tutto preso da sé stesso, favella e dialettica sono le sue armi abituali, non cascarci, voleva solo affabularti”. “Sei bellissima ed è normale che una persona vuota come lui miri solo a prendersi la tua attenzione, vede solo sé stesso, ma non sa con chi ha a che fare…”. Le sue lusinghe stridevano con il rancore che potevo percepire e di cui sentivo l’odore. Era divampato un incendio dentro di lui e non poteva spegnerlo e neppure lasciare che bruciasse e si nutrisse. Aveva ingoiato una pillola per essere sicuro di fare l’amore con lei quella notte e aveva bevuto molto, gli occhi gli si chiudevano e non sarebbe arrivato sveglio in albergo.
Lei lo guardava e annuiva. “Certo che non mi ha abbindolata”, “nei ho visti tanti come lui, poveri vanitosi e illusi”. “Un uomo è un’altra cosa, Charles…”, lo guardava perché scegliesse lui come completare quella frase, con la certezza che il solo uomo a cui voleva riferirsi era lui.
Dentro di lei, invece, risuonava la mia offerta di poco prima e il brivido di immaginare come sarebbe andata se avesse potuto dire di si e lasciarmi arrivare con lei in albergo, se avesse avuto un albergo da sola.
Era li con lui e aveva deciso di entrare nella sua vita e di condurla altrove.
Pochi mesi dopo ci sarebbe riuscita.
Ricordo i mesi e gli anni della guerra nella sua casa, i figli perduti e il male inflitto, ma allontano quei pensieri inutili; si tratta delle sue scelte e della sua vita, del suo cammino.
Torno a quell’ufficio ed alle parole aspre su di me.
Ci sono stati tempi difficili dopo quelle parole, ho pagato il conto con le mie scelte, ho perduto il denaro, ho rischiato di perdere i miei figli e me stesso.
Vederli adesso mi faceva tenerezza e provavo compassione, capivo il loro tormento nascosto, sentivo il dolore dissimulato e sotterrato nelle cene con i più ricchi e l’ambizione mediocre di poter assomigliare loro, senza osare essere davvero liberi e volere la prosperità anzicchè i soldi e solo quelli.
Rughe agli angoli degli occhi mostravano stanchezza e non maturità, linee grigie tra i capelli erano soltanto segni del tempo e non messaggere di saggezza e pace.
C’erano libri tutti chiusi e mai letti in quella libreria, passioni immaginate e mai sperimentate in qui corpi invecchiati e appesantiti, giudizi acri su di me nei loro cuori, e nessuna ispirazione.
Eppure io ero ancora lì adesso, vivo più che mai, con una ferita che non avrei più dimenticato e la sua cicatrice cava e profonda a ricordarmi cosa avevo perso e l’anima intrisa di fantasia come quando ero un bambino e il vuoto era subito riempito dalle creature della mia immaginazione.
Il potere di creare era tornato a me ed aveva il peso di quella pietra e la sua luce dentro.
Non ricordavo da dove fosse arrivata e non sapevo come fossi giunto fino a li, e non ero ancora partito verso la mia nuova meta in Akasha senza la mia Maestra.
Scommetterei che lei era lì ed ha assistito a tutto quello, sorridendo compiaciuta. Avrei atteso un pò prima di chiamarla per tornare nell’akashi, del resto anche quella notte il mio era stato un viaggio bellissimo.
Il primo di tanti altri.
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