
Quando ho letto quel messaggio, ho deciso che doveva essere un segno, un invito a fare qualcosa, una piccola, indispensabile sfida a provarci.
In realtà è questo il tema, questo è l’argomento e questa la sola via per cambiare le cose: l’azione.
Ma quale azione? e chi dovrebbe agire?
Questa due domande semplici rischiano di rimanere senza risposta, sotterrate dall’ipocrisia. E’ esattamente questa – infatti – la melma che riempie la palude sociale e tiene tutto sotto la sua coltre appiccicosa e inerte.
Ipocriti e fermi. Questo sono gli uomini e le donne di questa terra. Questo siamo.
Ogni giorno conviviamo con quello che ad altri appare impossibile e, per altri, sarebbe insopportabile.
Ogni giorno affondiamo nel fango pesante e fetido e scegliamo la via più comoda per rimanerci e sopravvivere: non muoverci. Agitarsi non serve, provare a liberarsi neppure, tanto vale allora rimanere fermi ed attendere che ad essere ingoiato sia qualcun altro. Così ci abituiamo alla scena e non ci disturba più neppure la vista di donne e uomini, bambini e vecchi, che lentamente muoiono soffocati, ingoiati dalla materia viscida e profonda sulla cui superficie tutti costruiamo le nostre esistenze. Precari, senza fiducia e rassegnati.
Poi qualcosa turba quella quiete mortale, qualcuno che non è dei nostri urla e si dibatte, non sembra disposto ad affondare in quel liquame e allora siamo costretti a fare qualcosa. Il minimo indispensabile, se non altro perché si accende qualche luce, qualche telecamera viene a disturbare la penombra del nostro inferno quotidiano e ci tocca darci una sistemata, renderci presentabili e rispondere alle domande.
Ma mentre le luci si spingono impietose sul luogo dell’ennesima barbarie, tutto intorno rimane l’ombra consueta che ospita il solito dolore immobile e i volti senza voce che popolano il mondo della sofferenza.
Quel messaggio diceva: “la morte non esiste”…” ma esiste l’anticamera della morte ed è orribile”.
Qui è stato massacrato un giovane, senza colpa e senza motivo, e veniva da altrove, nato da chi è fuggito prima e cresciuto lontano dal fango.
A volerlo uccidere senza chiedersi perché è stato un altro giovane, uno di quelli che nella palude mefitica è nato e vissuto e adesso ha sacrificato la sua esistenza. Pagherà il prezzo più caro e doloroso, prima alla giustizia degli uomini che si è messa l’abito buono per compiere il suo rito tardivo e inutile e poi alla sua anima che un giorno si sveglierà dall’oblio in cui è stata allevata e leverà altissimo l’urlo per essersi perduta per sempre, disperata e senza rimedio.
Tutto questo è accaduto sotto gli occhi di altri, spettatori, fermi e pigri. Nessuno si è mosso. Hanno aspettato che il corpo esanime di quel ragazzo sprofondasse lentamente nel loro fango e che la palude si richiudesse su di lui senza una traccia, come hanno visto accadere per molti altri.
Ma non è questa la tragedia, non la sola.
Quel ragazzo è stato infine soccorso e strappato all’abbraccio mortale e oggi combatte la morte in un letto del reparto di terapia intensiva di un ospedale, lontano cento chilometri dal luogo in cui è stato colpito.
Qui, invece, donne e uomini continuano a sprofondare inesorabilmente nel ventre ingordo e silenzioso che ci circonda.
Un bella signora con tanti anni e qualche figlia affettuosa ha pagato il suo prezzo al tempo e alle sofferenze del cuore e ha dovuto chiedere aiuto a loro. Anche loro hanno chiesto aiuto, inermi e incapaci di sollevarla dal buio in cui era sprofondata; accade così quando si ha paura che a morire sia qualcuno che amiamo, troviamo la forza e agiamo; corriamo dove ci aspettiamo che qualcun altro ci soccorra e ci aiuti.
Ma qui regna il fango e la corsa è sempre vana, l’approdo è inutile.
Quella bella e anziana signora giace da giorni su una poltrona nell’atrio del Pronto Soccorso di un’Ospedale senza fede e senza mezzi. Le sue figlie la tengono in vita mentre qualcuno dice loro di attendere, che prima o poi qualcosa accadrà. I giorno torridi di un’altra estate consumano il tempo eterno della palude che attende il suo tributo silenzioso ma loro non hanno ancora deciso di cedere. Le ore sono scandite da turni e veglie, mattine, pomeriggi e notti che si susseguono a dare un senso alla parola vivere che qui diventa resistere alla morte.
Intanto a quel pontile fragile disteso sul mare di fango approdano altre esistenze in bilico e altri uomini e donne si aggrappano alle pareti incerte di quella stanza del Pronto Soccorso, e tutti puntualmente rimangono fermi.
L’attesa è tutto qui.
Vivere è diventato questo, attendere che il tempo pareggi il suo conto e accettare il verdetto e l’impotenza. La corsa finisce qui, varcato l’accesso di un Ospedale che non può curare e si limita ad accogliere senza umanità e senza prospettive.
Un padre grida perché il figlio è caduto da un balcone e nessuno si affretta a capire se morirà. Un altro tira fuori la lingua dalla bocca sanguinante del suo che si è stretta per l’epilessia.
La bella e anziana signora farfuglia parole confuse mentre le sue figlie si danno il cambio in attesa di sapere cosa sarà di lei.
Intanto sul mare la città si stringe intorno alla famiglia di quel ragazzo che lotta per non morire qui. Loro sperano di andar via appena si riavrà e potranno farlo e giurano che mai più torneranno nella palude che non ricordavano così putrida e assassina.
Nel frattempo, si sono accese le fiaccole e i fuochi fatui animano la superficie del mare che li riflette tremuli e suggestivi. Da qui non si vede l’acqua salata che lambisce il fango e tutto sembra diverso, quasi normale.
Gli abiti dei “primi” sono intonsi e puliti, le fasce tricolori stirate e composte e mille persone li seguono fino ad un altro approdo dove parlano i Ministri della Fede.
Tutti sanno adesso che si può reagire anzicchè restare fermi.
Ma i fuochi fatui sono fugaci e mentitori e presto saranno spenti e dimenticati. Nessuno li condurrà in quell’Ospedale eretto nel bel mezzo della palude, dove quella bella signora e le sue figlie consumano le loro forze per non essere inghiottite.
Presto saremo ancora tutti fermi e rassegnati, troppo impegnati a sopravvivere e soffocati dall’ipocrisia.
Rispondi