LA YERBA DEL DIABLO

ATTENZIONE ! questo racconto è tratto da una storia vera. 

Il suo contenuto è esplicito e potrebbe disturbare alcune sensibilità.

Se iniziate, leggete fino in fondo.

ASCOLTA: https://music.youtube.com/watch?v=DMJgiky90pE&feature=share

LA YERBA DEL DIABLO

I vestiti erano sul letto, ordinati come se dovesse indossarli per la prima volta e qualcuno li avesse disposti per lui nella giusta sequenza e insieme a quelli c’erano anche alcuni dei suoi strumenti del mestiere. Per terra, accanto al letto, sul tappeto morbido stavano in piedi un paio di anfibi nuovi di zecca, li avevano “presi” la settimana precedente nel retro del palco, al locale; ce n’erano molti nelle loro belle scatole, il marchio era lo sponsor della serata e li aveva distribuiti ai modelli e alle modelle che avrebbero sfilato lì.

Prima che qualcuno venisse a riprenderli, lui e il suo amico Athos avevano fatto una consistente pulizia, prelevandone quanti ne servivano, per numero e colore; ma, come previsto, non c’era nulla per il Bambino e il suo piede enorme.

Si vestì con calma, inspirando il profumo della maglietta di cotone lavata e stirata da Helena. Aveva le chiavi di casa sua e ogni lunedi si occupava delle sue cose, qualche volta aveva dovuto far sparire le macchie del sangue, era brava e non gli aveva mai chiesto spiegazioni.

Helena lavorava per lui da un anno, era Russa e usava solo detersivi e altre diavolerie pieni zeppi di essenze di fiori e frutti. A lui piaceva quel profumo così dolce che presto si sarebbe confuso gli odori della strada, del locale, dell’alcool e delle persone, gli faceva ricordare chi era.

Infilò le calze pesanti sopra alle altre, la serata era fredda e sapeva che, senza di quelle, un’ora sulla porta gli sarebbe costata le dita gelate e qualche bestemmia. Una volta dentro le avrebbe potute togliere perché lì la temperatura sarebbe salita, e molto.

Faceva lo stesso anche con il resto dei suoi vestiti, a parte i suoi jeans, il resto era fatto a strati, maglietta d’ordinanza, nera con la sua grande scritta “SECURITY” sulle spalle e sul petto, e il piccolo logo del locale appena più in basso, felpa identica, stesso nero e stessa scritta. Niente cappuccio quella sera, così avrebbe preso il piccolo cappello di lana, poi giubbotto di jeans e ancora sopra il bomber nero con la solita scritta, con il logo del locale cucito sulla manica a sinistra, proprio sulla spalla. Era grande e grosso e con tutta quella roba addosso lo sembrava ancora di più, meglio così pensava, qualche ubriaco in meno si sarebbe fatto venire la voglia di fare l’idiota, ma in realtà sapeva bene che quelli, ubriachi e fatti o tutt’e due, non lo vedevano neppure quando erano in preda alle loro allucinazioni e sentivano solo il ritmo ossessivo della musica. Quando erano posseduti dal loro diavolo.

Aveva infilato la cintura di cuoio nera nei passanti e ci infilò sopra il cinturino sintetico del marsupio nero, anche quello con la solita scritta, faceva così da una notte di molto tempo prima in cui qualcuno glielo aveva strappato via mentre tentava di rialzarsi da terra dove lo aveva spedito con un pugno in faccia e a lui era toccato stare in quel casino senza i suoi strumenti, distratto dal pensiero di averli persi.

Prese dal letto il tirapugni di ferro. Era lucido per il tempo trascorso e aveva un aspetto strano e inquietante, sembrava uno strumento di tortura e tutto sommato il suo impiego non era molto diverso. Lo mise nel marsupio e poi soppesò con la mano l’altro compagno delle sue notti: il cilindro metallico e nero che lo avrebbe seguito là dentro. Era davvero un oggetto suggestivo, flesse il polso destro indietro e poi lo fece scattare in avanti con un movimento deciso e forte, dall’estremità uscì in un attimo la lunga molla telescopica e rigida con la sua piccola punta rotonda, si era trasformato in una via di mezzo tra una corta frusta e un manganello flessibile. Si chiese chi l’avesse inventato, quell’attrezzo, e se fosse davvero spagnolo come il suo nome; si rispose che in ogni caso aveva creato una cosa molto utile per tenere lontani gli stronzi e a volte aprire le loro teste.

Non era cinico e non amava particolarmente questa parte del lavoro, ma c’era abituato e aveva imparato che a pensare troppo non si ricava niente se devi stendere qualche invasato in preda a una dose troppo forte di MD.

Infilò nel marsupio anche una confezione nuova di tappi per le orecchie, i suoi guanti di pelle leggeri, quelli che teneva dentro al locale, e l’auricolare con il suo filo a spirale che portava sempre a casa con sé come facevano anche gli altri, per evitare che si confondessero. Le radio migliori e le fondine erano tutte segnate con i nomi di quelli fissi del servizio e per i nuovi e quelli ingaggiati nelle occasioni speciali c’erano le altre, che funzionavano peggio e a volte per niente.

Finì di allacciare gli anfibi e si ricordò il moschettone nuovo che aveva comprato; lo andò a prendere dalla piccola busta sul mobile dell’ingresso e lo aggancio direttamente alla cintura, di lato, a sinistra. Ci avrebbe assicurato il guinzaglio lungo di Charro che intanto dormiva profondamente, arrotolato come un enorme gatto bianco sul divano di velluto azzurro.

Era freddoloso Charro, ma quando era con lui lì fuori sembrava che non sentisse più niente.

Era molto meglio di lui e dei suoi amici e compagni, era fiero e coraggioso quando occorreva e tornava pacifico e pigro subito dopo, come se nulla fosse accaduto; era sempre come doveva essere e non si trasformava in nient’altro per fare quel lavoro di merda; non doveva passare ore in palestra per tenere forti i suoi muscoli pazzeschi, era nato così e non doveva neppure darsi arie o fare il duro del cazzo per impressionare gli imbecilli in fila dietro alle transenne: bastavano i suoi occhi allungati e fissi e la testa grossa come un pallone incastrata nelle cinghie della museruola di cuoio a dissuadere quasi chiunque. Quasi.

Qualche scemo era più scemo degli altri e allora Charro avrebbe dovuto rimetterlo a posto, finora non era stato mai necessario che gli togliesse la museruola durante il servizio sulla porta del locale.

Ma era accaduto, una volta, durante una festa privata dove gli stronzi erano troppi e il Servizio scarso. Quella notte era iniziato tutto, o meglio era finito tutto, la sua vita di prima, il suo matrimonio e la sua famiglia.

***

Aveva accettato di fare quel servizio all’ultimo minuto, non lo faceva mai senza aver visto bene il posto, ma quella volta sembrava una cosa abbastanza facile: Il concerto di un gruppo di mezzi rapper bianchi in un capannone industriale che ne ospitava molti, uno dei tanti della periferia, con un’area esterna completamente circondata, tre ingressi esterni e due per il capannone. Una porta esterna rimaneva senza sorveglianza diretta e sarebbe servito qualche uomo in più, ma il budget era povero e aveva deciso di mettere in tasca qualcosa in più da dividere con l’agenzia. Il perimetro era affidato a lui e poteva occuparsene con due ragazzi esperti e Charro.

Tutto era filato liscio all’ingresso, moltissima gente e qualche scalmanato, un paio di pusher di erba e fumo e un parcheggio lontano.

Durante il concerto, le solite cose e un gruppo più agitato degli altri che pogava proprio sotto al palco, fino alla fine, quando era scoppiata una lite imprevista con un altro gruppetto di giovanissimi ragazzi bianchi. I loro tatuaggi non gli dicevano niente di buono e quando vide uno di loro uscire di corsa dalla porta del capannone, fece il giro per vedere a quale ingresso fosse diretto. Prese l’ingresso libero, quello più lontano che portava al parcheggio, correva davvero veloce…

Si fermò lì e chiamò alla radio per sapere come procedeva l’uscita. Tutti erano fuori e il gruppo che aveva iniziato la rissa era stato isolato e tenuto dentro, sarebbero usciti dopo; una volta fuori dai cancelli erano affari loro e lui voleva solo che finisse il deflusso di quei quasi duemila ragazzi per chiudere la cassa e fare i conti del bar.

Tutto sembrava tranquillo, lui era in piedi vicino all’ingresso alto e largo e Charro se ne stava tranquillo sdraiato come al solito con la grossa testa tra le zampe distese sul pavimento di cemento liscio, gli aveva tolto la museruola e presto lo avrebbe fatto salire sul furgone per andare a casa. Jimi fece cenno al gruppo degli esagitati ormai mezzi addormentati di andare e quelli presero la direzione dell’ingresso esterno più vicino. Non c’era nessuno lì a sorvegliare, la serata era finita e non poteva succedere più nulla. Fu allora che sentì il primo colpo di pistola, secco e forte, e poi altri due, vicinissimi.

Charro era balzato sulle zampe, proteso verso quel rumore che gli era familiare per via dell’addestramento che lo portava a fare almeno un paio di volte al mese al campo, dove il figurante, durante gli attacchi, sparava con una 9 parabellum a salve che aveva lo stesso suono.

Gli lasciò un po’ del guinzaglio teso e partirono insieme verso l’ingresso esterno; quei cazzoni erano tornati tutti indietro ed erano dentro al perimetro. Adesso erano guai, un ragazzo era a terra e si lamentava stringendo al petto una gamba, pensò che almeno non era morto, o non ancora. Pochi metri dentro al cancello c’era una sagoma in piedi con le braccia tese e una cazzo di grossa pistola in mano, gli sembrava che fosse il fenomeno che era fuggito poco prima verso il parcheggio. Il lampione era proprio sopra alla sua testa e la luce negli occhi non gli permetteva di vederlo bene, ma si accorse che si era girato verso di lui, con la pistola puntata e aveva una faccia stravolta.

Lasciò andare Charro senza neppure pensare di farlo, era stato automatico anche per lui, sembrava davvero di essere al campo e che tutto fosse artificiale.

Il grosso Dogo era partito di slancio e le sue zampe posteriori lo spingevano in avanti come un proiettile, coprì i dieci metri in tre salti e poi sentì il colpo secco quando colpì il ragazzo e vide la pistola volargli via dalle mani mentre partiva l’ultimo colpo.

Seguì un attimo di silenzio surreale che fu interrotto subito dalle grida di dolore di quel giovane esaltato, Charro aveva chiuso le sue mascelle sulla sua coscia, appena sotto all’inguine e adesso lo trascinava con sé in una danza furiosa.

Lo raggiunse di corsa e gli fu sopra; il ragazzo si dimenava come un ossesso e la presa di Charro non avrebbe ceduto, lo aveva afferrato in una parte pericolosa e nonostante il buio si vedeva una chiazza di sangue allargarsi sui pantaloni militari e disegnare strisce sul terreno grigio.

Doveva staccarlo da lì, così sferrò un pugno secco e forte al ragazzo che perse i sensi, poi afferrò il grosso collare di Charro e infilò la punta del break-stick nel piccolo spazio che separava i denti, in fondo vicino all’articolazione della mandibola. La presa era d’acciaio, ma non poteva resistere alla rotazione della leva, la disserrò e tirò con decisione indietro il collo.

Il ragazzo era libero e ancora svenuto, in una pozza di sangue.

Quando era tornato a casa era già mattina da un pezzo e Lucy doveva essere al lavoro perché tutto era in silenzio e in ordine.

Capì poi che era stata sveglia tutta la notte ed aveva sentito la notizia alla TV e visto le breaking news  di quel canale che aveva fatto le riprese, della polizia, di Charro, di lui e della ragazzina morta per errore al suo posto.

Si spogliò e mise la mano in uno dei sacchetti di ghiaccio che teneva sempre pronti nel freezer, il pugno a quel ragazzo era stato assestato male e aveva un forte dolore sulle nocche all’altezza di anulare e medio della mano destra. Prese il biglietto che era in vista sul tavolo della cucina e lesse: “me ne vado, non cercarmi. Lucy”.

Era passato un anno e non l’aveva cercata, sapeva che era tornata a casa dai suoi e che sarebbe stato inutile; lo aveva avvertito per mesi prima di andare via, ma lui aveva rifiutato le proposte di lavoro di suo padre e anche dello studio legale di suo fratello.

Il loro bambino era nato senza che lui fosse con lei e si diceva che andava bene così, che quella notte quel proiettile era destinato a lui e che Charro avesse deviato quella traiettoria e fatto morire quella bambina invece di lui che ora pagava il suo piccolo prezzo inutile al diavolo.

Lo vedeva quasi tutte le notti e a volte urlava, altre tirava pugni a vuoto, niente di male,  solo che adesso non c’era più Lucy accanto a lui a scacciarlo e calmarlo, a prendersi cura di lui e a chiedergli di smettere di lavorare all’inferno. 

***

Arrivò davanti al locale e fermò il furgone sotto all’insegna luminosa, lasciò Charro al caldo nel suo box pieno di coperte, dietro, scese e salutò Il Santo e Raoul, si diresse verso l’ingresso e attraversò il lungo corridoio buio dietro alla porta di ferro, a sinistra si apriva la finestra del guardaroba e intravide Sheila che si girò e gli sorrise.

Quando fu in fondo si fermò a godersi la vista che ogni volta era speciale, quel posto era grandioso e visto da lì, vuoto e silenzioso, assomigliava davvero a un girone dell’inferno, in attesa di ingoiare le prossime anime dannate in arrivo.

La pista era grandissima con il primo bar a sinistra lungo il lato su cui si aprivano due uscite di sicurezza illuminate, in fondo c’era un palco alto un metro e poco più avanti la consolle; poi un’altra torre di resina e tubi alta almeno due metri e un palco più piccolo del primo su cui si sarebbero esibiti almeno tre DJ quella notte destinata a non finire.

Tutto il perimetro era percorso tre metri più in alto da una balconata e al piano di sopra c’era il secondo bar ed uno spazio riservato per gli ospiti speciali.

Quella sera attendevano uno di loro e tutto era pronto.

Salutò Patrick che avrebbe gestito il servizio e sapeva che avrebbe chiesto a lui di fare apertura, chiusura e cassa, come accadeva ormai da mesi. Sorrise alle ballerine che erano entrate nel frattempo e iniziavano a riempire quello spazio freddo con le loro voci allegre e giovani e le gambe bellissime che venivano fuori dalle tute e dai jeans con cui erano arrivate.

C’erano ormai tutti o quasi ed erano una vera e propria tribù in quei momenti prima che la serata iniziasse, la gente dell’inferno: i capi del clan che contavano i soldi per l’apertura, mettevano in fila le liste per la porta e raccomandavano a Patrick e a lui i nomi per il privè; gli artisti, le ballerine e i cubisti, con i corpi snelli, lucidi e glabri che si raccontavano storie di audizioni e provini improbabili e fantasticavano su sogni da realizzare lontano da lì; i bartender che contavano bottiglie e distribuivano free-drink, Sheila e le sue ragazze del guardaroba e del servizio ai tavoli, strette nelle tute di lattice glitterato e bellissime.

Poi c’erano i guerrieri del clan, dodici, stupidi cavalieri pieni di ambizione e testosterone che sentivano di poter vincere qualsiasi guerra insieme, scherzando alla radio finchè le voci non si facevano serie e toccava intervenire e mettere qualcuno a terra con la faccia spaccata.

All’inizio si chiedeva cosa ci facesse lì con quelle persone così diverse da lui. Si era laureato presto e non aveva neppure cercato un lavoro; si era fatto un nome e una reputazione in palestra e poi lavorando ogni tanto a chiamata, finchè in quel locale uno dei capi lo aveva visto sciogliere un nodo davvero stretto una sera in cui un boss fuori controllo aveva fracassato gli zigomi e il naso al barman con il secchio del ghiaccio e preso due pugni in faccia dal Bambino.

I pugni del Bambino erano sempre definitivi, perciò quando si era ripreso era tornato in compagnia e armato.

Lui era rimasto sulla porta, sapeva che sarebbe andata così, lo sentiva. Aveva chiamato Patrick alla radio e aveva aspettato che gli parlasse, fermo due passi indietro e con il tirapugni sul guanto sinistro. Poi aveva fatto strada al gruppetto dicendo agli altri di non muoversi e li aveva accompagnati al bar di sopra dove li aspettava Sheila con le sue ragazze e almeno cento bottiglie. Era rimasto li per tutta la sera, sempre lui e solo lui e aveva lasciato che andasse come doveva anche quando quel boss del cazzo aveva chiesto alla sorella di Helena di fargli un pompino davanti agli altri. Sapeva che non era in grado neppure di camminare per quanta coca aveva sniffato e champagne bevuto e dunque ingoiò il desiderio di rompergli qualche osso della faccia e attese che la ragazza annuisse mimando il suo blow-job e facendo scoppiare tutti a ridere. 

La serata era passata e il gruppo se n’era andato in pace.

Simon era uno dei soci lì e lo aveva chiamato nel suo ufficio, gli aveva dato mille pounds extra e un soprannome, “l’Avvocato”, e gli aveva affidato un compito fisso in quel posto. Ci sarebbe rimasto tre anni con il suo soprannome e la laurea in legge ormai seppellita da qualche parte.

Era ancora lì quella notte e disse ai tre più giovani di montare le transenne lunghe sul marciapiede esterno e preparare le stufe a gas; sarebbero arrivati in tremila anche quel venerdi e la notte era fredda. 

Dopo le prime due ore la porta era chiusa e non c’era più posto per nessuno, tranne qualche amico che arrivava tardi come gli aveva detto per entrare gratis e prendere un pugno di dischetti colorati per il bar con la scritta “staff”.

Stava in piedi nel suo posto preferito, sul terzo gradino che portava al bar più grande, aveva un tappo di spugna nell’orecchio sinistro e l’auricolare in quello destro e così resisteva alle vibrazioni potenti delle casse che intanto spappolavano i neuroni degli altri che ballavano, bevevano e credevano di vivere il loro momento di felicità.

Vide un movimento sul banco, guardò Ted che gli fece cenno di si con la testa e indicò il tizio con i capelli neri e lisci da Seminole. Lo raggiunse, girò il bicchiere dietro al banco prima che la ragazza lo potesse prendere e lo afferrò per un braccio trascinandolo giù.

Athos che aveva visto dalla consolle gli chiese per radio se avesse bisogno di lui e gli rispose di no, sapeva che se lo avesse chiamato, sarebbero arrivati prima i suoi due ganci di qualsiasi parola e non aveva voglia di guai quella sera. Portò il coglione nel tunnel di ingresso e gli chiese se sapeva chi era. Il ragazzo era alto, un metro e novanta almeno, e gli disse “si, ti ho già visto qui ogni venerdi”. “E io ho visto te”, rispose. “Ti ho visto vendere la tua merda di ecstasy e ho fatto finta di niente, nemmeno un pound ti ho chiesto, vero?”. “Vero” disse il ragazzo che sembrava stranamente calmo.

“Allora perché…” non finì la frase e si accorse che almeno tre persone erano entrate nel tunnel dietro di loro. Premette il pulsante della radio nella cintura e chiamò sul canale aperto, poi fece un passo indietro e colpì il pusher alla pancia e in faccia appena si piegò in avanti. Sentì i denti rompersi e lo scavalcò andando incontro ai tre che venivano avanti, prese il manganello spagnolo dal marsupio e lo fece aprire in un attimo, poi colpì il primo sulla spalla che vide abbassarsi, doveva essersi rotta. Arrivarono Athos e Il Santo, poi Patrick e dopo pochissimo era tutto finito.

Verso le cinque iniziò ad avere gli occhi lucidi e dolenti e le gambe intorpidite, disse alla radio che avrebbe fatto un giro al piano di sopra e vide Raoul prendere il suo posto vicino al bar, salì per la scala a destra e Andrea gli venne incontro sorridendo, studiava legge e l’aveva aiutata ad iniziare il tirocinio dal fratello di Lucy, lo abbracciò forte e lo baciò sulla guancia. Le prese la mano e le sussurrò qualcosa sulle unghie dipinte di cui era sempre orgogliosa, poi la lasciò passare sui tacchi altissimi mentre continuava a sorridere come sorride solo una ragazzina di diciannove anni.

Andò dietro al bar del privè e prese una bustina nel suo cassetto sotto alla cassa, c’era una boccetta di vetro piccola e trasparente, versò la polvere sul minuscolo cucchiaino che Federica gli aveva allungato nel frattempo e la tirò con il naso da una sola narice, tutta insieme. In un attimo le restituì tutto e lei fece sparire ogni cosa.

Non aveva mai pagato un solo grammo della sua droga e non ne era fiero come gli altri, ma funzionava e lo aiutava a non soffrire dopo le cinque. 

Non aspettò neppure di sentire la botta, riprese il suo giro e tutto gli parve subito più luminoso, leggero e sopportabile, sarebbe stato bene fino alla chiusura ma non avrebbe dormito neppure la mattina seguente.

Un anno prima sarebbe stato felice, perché avrebbe accompagnato Lucy a fare spese come ogni sabato e avrebbero riso e scherzato e pranzato in qualche bel ristorante in centro e fatto l’amore, aveva soldi sufficienti per non farle rimpiangere la sua casa e la sua famiglia e aveva abbastanza amore per cancellare la puzza delle sue notti prima di tornare a casa, o così credeva, prima di perderla.

Alle sei del mattino la musica era spenta ed erano rimasti solo un centinaio di zombie che ballavano seguendo il ritmo che aveva ormai devastato il loro cervello insieme al MD, i ragazzi li accompagnavano fuori e li lasciavano a ballare ancora lì con il diavolo che girava i dischi per loro. Lui si chiedeva come potessero guidare in quello stato e non cercava risposte.

Aveva finito di contare i soldi e fare la chiusura delle casse, sistemato i contanti nelle buste con su scritta la destinazione e chiuso la sua con le percentuali dei pusher a cui permetteva di stare lì alle condizioni sue e di Patrick. Nel pomeriggio sarebbe passato da lui e portargli la sua parte e salutare Rose e Derek, il suo piccolo campione di sei anni.

Aprì il furgone e Charro si stirò agitando la coda lunga e sottile. Saltò giù e si scrollò prima di pisciare proprio sull’angolo del palazzo, si diressero verso il piccolo giardino curato che era poco più avanti e dove avrebbero passeggiato in pace per un po’ prima che facesse giorno, camminando tra le foglie arancioni e gialle che attutivano i passi e rendevano tutto magico. Aveva dimenticato di togliere il giubbotto nero con la scritta “Security” e mettere la sua giacca di pelle, ma non aveva voglia di tornare al furgone.

Era felice perché aveva preso la sua decisione la mattina precedente.

Avrebbe smesso, quella era stata la sua ultima notte, non lo aveva detto a nessuno e aveva preparato le lettere per Patrick e Simon.

Sarebbe andato a casa da Lucy, da suo padre, a conoscere il loro bambino e a chiederle perdono e dirle che avrebbe accettato l’offerta di suo fratello di lavorare per lui, avrebbe fatto l’avvocato davvero questa volta, o ci avrebbe almeno provato; magari si sarebbe occupato di recuperare qualche credito o fare qualche indagine, considerate le amicizie che aveva fatto in quegli anni passati a vivere di notte e tutti i demoni che gli dovevano qualche favore.

Sentì una strana agitazione e un rumore di passi veloci avvicinarsi di corsa, Charro si voltò veloce e lo tirò indietro, si volse anche lui e vide tre persone dietro di loro, uno aveva i capelli neri e lunghi come un guerriero Seminole e teneva in mano un fucile. Sparò prima a Charro che cadde di lato con il torace aperto senza un guaito, poi sparò a lui, nella pancia e poi ancora. Non sentiva niente, era sdraiato sull’asfalto freddo e i suoi occhi vedevano solo il muso di Charro e una piccola nuvola bianca che si alzava dal suo grande naso nero e spariva. Guardò nei suoi grandi occhi gialli e sinceri e seppe che stava bene ormai, poi tornò la notte…

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