The Valdai Club (Italia-Russia 2022).

“Chi è nato e venuto a questo mondo per conoscere la verità, non può perseverare nell’ignoranza, l’impulso al Reale in lui è indomito e ribelle.
Soffre enormemente sotto il peso e il dominio della falsità, della calunnia, dell’inganno, della morte continua; è assetato di libertà, di giustizia, di vita reale e di Verità.” – Carl Gustav Jung.
L’incipit di questa breve riflessione sulle vicende internazionali è alto e il suo titolo enigmatico. Presto lo spiegherò, e probabilmente vi chiederete cosa c’entra il mio personale ricordo di un passato recente, legato alla società italiana, provinciale, meridionale e povera, con le grandi linee che disegnano il nuovo ordine mondiale e compromettono gli equilibri geo-politici planetari.
Tutto è profondamente connesso, vi rispondo, e c’è più di quanto sembri, della mia piccola vita in una città del Sud italiano e della sua micro cultura tradizionale in via d’estinzione, nel discorso di Vladimir Putin al Valdai Club del 27 ottobre 2022.
Il mondo si è diviso da tempo, o sarebbe meglio dire che è stato diviso da tempo ad opera di una parte del mondo stesso che si crede titolare del diritto di governarlo secondo schemi e regole che produce e genera da sé.
Il mondo che conosciamo è – dunque – una sola parte del mondo intero, e neppure la più grande, neppure la più ricca (parlo di vera ricchezza e non di finanza artificiale) e ormai, probabilmente, neppure la più forte.
Apparteniamo a quella parte per qualche motivo e non ci siamo mai chiesti davvero perché. Noi “siamo l’occidente collettivo”, noi “siamo i buoni”, noi siamo “i nostri”, quelli che arrivano sempre quando c’è da ristabilire l’ordine naturale e la giustizia.
Ristabilire l’ordine che qualcun altro ha scombussolato, sbilanciato, squilibrato; assumendo così – inevitabilmente – il ruolo di cattivo.
Conoscere sarebbe la parola d’ordine, ma conoscere non è così facile nella civiltà delle informazioni libere e della rete globale; è un paradosso apparente, ma le informazioni esistono solo nella forma in cui sono generate nella nostra parte di mondo e nella misura che merita solo la verità compatibile con le regole del nostro occidente collettivo. Algoritmi e “debunkers un tanto al chilo” vigilano attenti che nulla sfugga alle nuove regole; la disciplina è la tesi essenziale, l’obbedienza è il suo corollario perfetto.
Questa parte di mondo ci definisce e ci nutre (o ci nutriva), e naturalmente non ci permette di conoscere l’altra parte.
Il “Valdai Discussion Club” è il Think Tank nato nei pressi del Lago Valdai in Russia nel 2004 e ha celebrato quest’anno a Mosca il suo diciannovesimo meeting. Quello è uno dei luoghi dell’”altra parte” di mondo e lì nascono e si confrontano i suoi principi e le sue aspettative.
Non credo abbiate sentito niente dai nostri “maestri dell’informazione” su cosa ha detto il Presidente Russo alla platea che lo ascoltava (il parterre era composto da 111 esperti, politici, diplomatici ed economisti provenienti da 41 paesi, tra cui tutti quelli che compongono il BRICS e molti altri, Stati Uniti, Germania e Francia inclusi) il 27 ottobre 2022.
(Qui il video con la traduzione del discorso al Valdai Club: https://fb.watch/gwDmkePB8n/)
Il tema è quello che unisce la parte alta del ragionamento a quella più bassa.
L’argomento è quello dei “traditional values”, i valori tradizionali che riassumono i principi fondanti della civiltà umana, ne rappresentano le profonde radici storiche e culturali e ne preservano l’ispirazione, definendo la meta dello sviluppo e del progresso contemporaneo.
I valori della tradizione sono l’epicentro delle scelte dell’altra parte del mondo che si contrappone, senza alcuna pretesa di primazia, al dilagante nichilismo della “cancel culture”occidentale.
“Non c’è niente da cancellare e niente da imporre”, questo potrebbe essere il titolo del discorso al Valdai Club, ci sono valori tradizionali da riconoscere e preservare e un confronto pacifico da ricercare, per integrare, coinvolgere, condividere e sanare.
Parole impossibili da credere per chi ha accettato supinamente il racconto dei “buoni” che corrono ovunque in soccorso delle vittime sacrificali del potere becero e retrogrado, dei despota regionali e dei “cattivi”.
Il mondo è stato diviso da tempo e a farlo è stato l’occidente collettivo, che avrebbe voluto poi conquistarlo tutto intero.
I valori tradizionali hanno sempre avuto colori, credo e culture differenti e le differenze non sono geneticamente divisive; al contrario, generano un autentico e plurimo senso di comunità e aggregazione e conducono all’integrazione più sana e consapevole con altre comunità e altri valori; difendere i propri equivale a riconoscere e rispettare gli altri nella stessa misura.
Vengo, quindi, alla citazione evocativa del titolo. È una provocazione, ma non può ridursi a questo; spero di rendere più comprensibile il tema complesso di cui si è occupato il Presidente Russo nel suo discorso alla platea del Valdai, ricorrendo a un esempio concreto, a qualcosa di cui tutti (o quasi) abbiamo fatto esperienza diretta. Questo può aiutarci a capire, giacchè il modello sociale della micro-cultura popolare può spiegare con semplicità cosa sia accaduto ai vertici del mondo. “Come in alto, così in basso”: Ermete Trismegisto si rivela ancora una volta illuminante.
Per prima cosa, occorre prendere coscienza diretta degli eventi mondiali, senza ispirarci alle verità masticate dai media mainstream e rigurgitate direttamente nelle nostre menti di spettatori inebetiti. Servono, invece, informazioni assunte alla fonte e senza filtri.
Si diano pace, dunque, i fact-checkers al soldo dei padroni dell’industria bellica o della finanza agonizzante e terrorizzata, perché cercheremo da soli la chiave per decodificare gli eventi di portata mondiale a cui assistiamo.
La troviamo, quella chiave, nella somma dei nostri “valori tradizionali” che non si discostano in nulla da quelli messi al centro del discorso di Putin del 27.10.22 e che hanno a lungo sovrinteso alle nostre azioni personali, familiari, sociali e collettive.
La storia ci ricorda di come fosse nitida la struttura del nostro modello sociale di provincia, prima che le relazioni fossero diluite e i legami indeboliti dall’avvento della tecnologia digitale e della trasposizione della realtà sul piano virtuale.
Prima delle foto filtrate e artefatte, della conta dei “Like” e del coraggio degli invisibili, avevamo una scala progressiva a definire il nostro essere individui, famiglia, quartiere, comunità e così via, fino alla coscienza di nazione e all’identità di popolo.
E così anche i confini erano segnati tra individuo e individuo, famiglia e famiglia, quartiere e quartiere, comunità e comunità e così via, ma il confine non era una barriera destinata a respingere, bensì un luogo dove indugiare per riconoscersi. Il luogo da rispettare per non invadere il campo altrui, non l’ostacolo con cui difendersi dall’altrui invasione. Quel luogo era netto ma permeabile, ci dava forma e ci permetteva al contempo di percepire il contatto con l’altro.
La cultura, la conoscenza, l’appartenenza e la condivisione erano lo sfondo perfetto per essere consapevoli di noi senza dichiarare inutili guerre e neppure dimenticare le differenze e così siamo cresciuti fieri del nostro cognome, membri di una comunità e pronti a essere parte di un paese. La povertà non ci ha tolto nulla, da questo punto di vista, ma ci ha rafforzati e mentre i luoghi più ricchi erano più disponibili ad assumere la foggia del modello economico occidentale “made in USA”, rischiando l’identità, questo Sud d’Europa manteneva vivo il ricordo del suo retaggio, primitivo ma solido.
È ancora vivo tra noi quel sentimento ? Ricordiamo ancora chi siamo ?
Si gioca sulla risposta a queste domande una sfida decisiva.
A lungo abbiamo subito la spocchiosa presupponenza di chi (ricordate “i frugali” d’Europa ?) ci ha giudicati troppo lontani dall’avvento dell’era neo-liberista per la scarsità di infrastrutture e collegamenti veloci, intangibili dallo schema economico unipolare perché troppo indisciplinati e indebitati, troppo pochi e troppo vecchi, con i giovani e i migliori intenti a fuggire verso il vero mercato e la vera economia.
Chi è rimasto si è lamentato a lungo del ritardo e della lentezza, ma ha amato quella stessa lentezza al punto da non essere pronto a scambiarla con la velocità fine a sé stessa. Siamo rimasti fermi a contemplare il sole sorgere sul mare, guadagnando quanto bastava appena per tornarci domani. Qualcuno è andato via e dopo dieci anni sul mercato e in mezzo alla nebbia o al freddo non ha potuto scegliere di rimanerci, smanioso di tornare davanti a quel sole e a quel mare.
Abbiamo ancora in mente il colore del grano e il sapore che ha, possiamo respirare senza aver paura e accarezzare gli animali e se abbiamo soldi ci costruiamo case per noi e i nostri figli, finchè non ci arrendiamo alla certezza che quei soldi non valgono da soli la pena di vivere.
Abbiamo vite meno regolari e sogni raccontati a voce quasi sempre troppo alta, come le storie perpetrate di balcone in balcone.
Resistiamo alle regole che non capiamo e onoriamo quelle che nessuno ha scritto e qualcuno ci ha consegnato da piccoli.
Il mondo com’era non c’è più e a farne le spese sono e saranno anche i potenti che si credevano intoccabili e per questo hanno rinunciato definitivamente ai “traditional values”.
“Poveri e pazzi” dicevano di noi meridionali; lo ammetto, ci si addice.
La povertà è uno stato mentale e può facilmente trasformarsi in ricchezza, se cambia il pensiero.
Pazzi invece lo siamo davvero, perché non abbiamo mai del tutto rinunciato alla nostra umanità e ai nostri “valori tradizionali”.
Il mondo è diviso e noi possiamo scegliere da che parte stare, in quale parte riconoscerci, ma prima dobbiamo sapere che c’è un’altra parte, conoscere ciò che ci viene nascosto.
Dobbiamo sapere che quel mondo assomiglia al nostro e dobbiamo vedere la nuova occasione che ci riserva questa assurda, orribile e ormai inevitabile guerra.
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