FERRO

“…io scateno il tuo cuore che tonfa diabolicamente,
scateno i tuoi giganteschi pneumatici,
per la danza che tu sai danzare…”

(Filippo Tommaso Marinetti: “All’automobile da corsa”)

Mi avvicino, calmo, e il cuore batte pronto ma lento. Osservo quello che preannuncia i momenti che verranno, il muso affilato e basso e la sua bocca enorme e sgraziata, minacciosa, e due più piccole ai suoi lati, la linea di cintura alta e i vetri piccoli e inclinati che fuggono anche da fermi, verso la discesa più breve che degrada sui suoi fianchi larghi e pieni di muscoli di ferro. Le linee tese si fanno rotonde e girano morbide dietro, dove due squarci regolari si aprono per puntare le bocche esagerate e larghe degli scarichi pronti a tuonare contro chi oserà venirci dietro. Un’ala massiccia si staglia dalla base del cristallo e punta il cielo, impaziente di ricevere il suo carico d’aria e schiacciare le grosse gomme al suolo, per lanciarci fuori dalle curve che stiamo andando a sfidare.

Mi lascio cadere nell’abbraccio del sedile fisso e scavato, rigido e amichevole mi cinge le spalle fino ai lati del collo e ci appoggio un poco la testa per sentire bene dov’è. Impugno il volante che ha lo spessore perfetto per le mie mani grandi e lo tiro a me delicatamente, dopo il click della leva che gli sta sotto, guardo i miei polsi e la sua misura e lo blocco così, perfetto e fermo.

Sistemo veloce gli specchi sui bracci affilati e indugio con il dito sul pulsante che darà vita al ferro che attende silenzioso il suo comando.

Premo con dolcezza e decisione e il cuore si sveglia e muove i sei grossi cilindri nella sua sequenza alternata, scatenando il fuoco e il suo boato a sorpresa, l’ago schizza in alto per un attimo e poi scende a duemila per un pò, gorgogliando irregolare e rozzo, infine si distende sottile e sornione come deve al suo disegno nobile.

La mia mano stringe la leva vera che innesta ingranaggi di ferro vero e attende che il piede gli dia il via, lo schiaccio e innesto: clack. Lo spazio è brevissimo e non serve forza, la prima è dentro e il piede destro affonda il giusto mentre sollevo l’altro con il termometro che si è ormai mosso fin dove doveva.

Pelo un po’ e lascio pattinare i grossi 19 posteriori sulle Potenza nere e fredde che accettano di consumarsi un po’ e lasciare la prima traccia sull’asfalto chiaro.

Seguo l’ago e cambio corto la prima e la seconda volta, per spostare il peso bruscamente a destra e sinistra e sentire come risponde; lo sterzo è affilato ora che sono ancora lento, è diretto e solido.

Ho tenuto la terza a metà e sentito il battito regolare prendere la vena di coppia, ora riattacco deciso e la lancio verso la prima curva che incontro e conosco. Ruggisce e sale a settemila con un canto armonioso e pieno, l’appoggio su una traiettoria larga e poi chiudo senza lasciare il gas, che pelo fino alla corda, la tengo ancora lì e cerco un primo limite, poi alzo leggermente il piede e il carico si alleggerisce troppo per il dietro che apre leggermente e senza rumore. Si assetta e riprende la linea seguendo il muso, gli chiedo altri 500 giri e poi metto dentro la quarta, ingoiamo i trecento metri successivi e ancora frizione, freno e punta e giù la terza, cinquanta metri con un urlo e la seconda con il suo accordo acuto.

Ha frenato bene anche fredda e adesso tiene la corda di sinistra mentre spingo e salgo di marcia senza scomporla troppo e ci lasciamo andare sulla riga bianca dall’altra parte fiduciosi e senza margine. 

Siamo su una strada amica e solitaria, ma è una strada e serve più attenzione. Risetto il cervello sulla modalità giusta e chiedo scusa al cuore che protesta, mentre il culo sente i sassi che picchiano sul carter sotto al posteriore.

Ascolto il tono del ferro che si accorda al mio set e inizio la danza leggera e senza strappi su una lunga esse veloce, poi chiedo ai freni di serie di mordere ancora forte e loro eseguono senza esitazione e con sorpresa, mi fermano il giusto prima di un’altra sequenza cortissima che infilo quasi senza gas e tanto sterzo, dondola poco o niente ed esce dall’ultima piatta e molto storta, come il sorriso stampato sulla mia bocca.

Sono tranquillo in questo grembo che mi trattiene e mi protegge mentre brucio ottani senza misura e ho il tempo di pensare e realizzare: che non c’è corrente qui, nè energia da recuperare, solo potenza da consumare e benzina da distruggere per provare piacere.

Mi sento bene, e per niente in colpa mentre ascolto due scoppi sordi appena alzo il piede veloce e pesto il sinistro che intanto avevo messo al centro sul freno; torna sulla frizione e mi aiuta a scalarne due, poi ancora freno, sterzo e gas, mirare, puntare e sparare, come ai miei tempi.

Il mio sorriso è sempre più storto e si trasforma in una risata stupida e totale.

Gli tiro il collo fino a settemilaecinque e lo tengo lì per sentire la raffica dentata del limitatore e vedere la sua spia rossa che fibrilla in allarme, lascio appena e metto dentro l’altra e sono di nuovo sulla curva rossa dello strumento centrale, analogico e prepotente, ancora il limitatore e poi la manovra di una volta che mi aiuta a tenere dritto il muso e sperare che il posteriore blocchi e scodinzoli. Ma siamo in strada e qui il limite è lontano, mi accontento e esagero in uscita così da bruciare un altro millimetro di battistrada sul piccolo tornante che mi aiuta perché sale un po’.

Dura ancora un po’ e poi trovo il suo proprietario che mi aspetta prima delle case e mi sorride. Mi guarda strano e devo essere brutto con il volto contratto dalla smorfia ignorante che mi si è stampata in faccia non so quando.

Mi fermo, il vetro è giù da un pezzo e sento subito il ticchettio del ferro che non sa ansimare e dunque si raffredda così.

Non scendo ancora e aspetto che la modalità “sapiens” sia di nuovo disponibile, prima di offrirgli una cifra senza senso.

Andiamo verso il piccolo bar pulito e sento anche i granelli di polvere sotto le Sabelt di camoscio leggerissimo.

Il profumo del caffè mi riporta qui dal mondo dei draghi che ho sempre amato tanto, quelli di ferro che mangiano Ron e sputano fiamme da dietro, a volte.

Parliamo ma non so di cosa. 

Poi ho un’illuminazione e capisco. Che Dio era stanco di essere perfetto e si è fatto uomo, ora è qui, dentro di ognuno di noi, per sperimentare la materia e il tempo, lo spazio finito e il dolore, per vedere che faccia ha il male e lasciare a ognuno la possibilità di decidere se seguirlo o vincerlo.

A me oggi questa materia mi piace davvero. Mi piace il ferro e a Dio pure.

Secondo me, a Dio oggi ride il culo.

Una replica a “FERRO”

  1. …”Dio era stanco di essere perfetto e si è fatto uomo…” è eccezionale.

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