Barbie-Bugiarda

“Noi donne stiamo ferme perché LE NOSTRE FIGLIE possano voltarsi indietro e vedere quanta strada hanno fatto”

Questa frase, pronunciata dal fantasma di Ruth Marianna Handler, rappresenta meglio (ai miei occhi, naturalmente) il film che secondo Vogue avrebbe reso leggendaria Greta Gerwig.

Immagino che il riferimento sia ispirato – esclusivamente – dal risultato dell’incasso strabiliante e dal suo record planetario.

Vengo subito al dunque. Non ho alcun titolo per recensire o criticare un prodotto cinematografico, finchè di questo si tratta; sono incompetente e impreparato.

Ma ci troviamo di fronte a uno spettacolo “di costumi” trasformato in un fenomeno “di costume” (sto ancora parafrasando gli irragiungibili Sanchez e Aricò su Vogue Italia), basato sulla trasposizione in chiave riflessiva e giudicante del viaggio andata-e-ritorno tra il mondo reale e quello di plastica che la Barbie più convenzionale di tutte (Barbie Stereotipo, appunto) compie, Un viaggio destinato ad approdare alla trasmutazione in carne, ossa… e vagina.

Un viaggio che è anche fuori-e-dentro come vuole la più attuale “tendenza” psico suggestiva di cui il film, per mano di chi ha curato la scrittura e la struttura del racconto, è intriso in modo ostentato. Dicono che la Gerwig abbia evitato di indulgere nel politicamente corretto, dissacrando (nientepocodimenoché) il colosso Mattel che ispira e co-produce la sua pellicola, ma a me pare che questa trovata sia quanto di più politicamente corretto si potesse immaginare, e dissimulare.

Vi sembro ostile? Non proprio.

Il film mi è piaciuto molto e per molti motivi diversi.

Ribadita la mia incompetenza, e rivendicata la mia esperienza di spettatore, dico che le interpretazioni di Ryan Gosling, Margot Robbie, America Ferrera e molte altre a seguire sono magistrali e non saprei in che ordine dovrebbero essere premiate.

Altrettanto vale per tutti gli aspetti del prodotto cinematografico, dalla fotografia ai costumi (e ti credo…), dalla sceneggiatura alla musica (e ti credo 2.0…).

Il punto è che Barbie stereotipo, appena incontrate le sue debolezze umane provenienti dal collasso spazio-tempo nei ricordi di Gloria (America Ferrera), si trova alle prese con la perdita del controllo della tribù intera di bambole sul “loro” mondo di plastica, dove gli “uomini” sono relegati ad una mera funzione riflessa e passiva, raccontata mirabilmente da un piccolo esercito di semi-disturbati, ebeti e mansueti, seppur con corpi scolpiti nella plastica per incarnare un immaginario perfetto. 

Entrambi gli stereotipi chiariscono presto di non avere i genitali e così (in apparenza) non c’è allusione o ammiccamento sessuale a Barbieland, ma la situazione si capovolge nel mondo reale degli uomini in cui la silhouette perfetta di Margot Robbie suscita le prevedibili attenzioni dei maschi presenti che sembrano deridere la sua ingenua disponibilità; qui inizia il percorso coredel film.

La contrapposizione tra il codice del potere patriarcale che domina a Real World e il dominio del femminile in ogni salsa a Barbieland.

Da questo momento il film si sbilancia e giudica con un metro del tutto differente la prevaricazione maschile sulle donne in carne ed ossa dal suo modello antipodico e plastificato, nel quale gli uomini sono ridotti ad una caricatura, innamorati dei loro pochi argomenti identitari e subalterni fino al paradosso, fintamente servizievoli e pronti a presidiare le aree più disparate del mondo delle bambole, di cui la spiaggia di Ken diventa il simbolo-tormentone.

Il Ken di Ryan Gosling, infatti, potrebbe essere a sua volta Ken-stereotipo, se ne esistesse uno, ma quella pletora di bamboli con il six-pac a vista  non serve neppure a definire un modello; perché il modello deteriore di maschio dominante, in realtà, si trova nel mondo reale, dove a comandare non c’è un prepotente antipatico, ma un gruppo di teneri semi-deficienti innamorati del profitto e attenti a professarsi tutori delle donne. 

Il travestimento un po’ ipocrita della finta rivoluzione femminile si rivela in questi dettagli con un perfetto senso della misura e del tempo narrativo. Con il passaggio di Barbie e Ken nel mondo reale le citazioni e si simboli si sprecano.

Ken percorre le strade reali e si imbatte nei Cops a cavallo, innamorandosi della loro suggestione che parla al suo lato alfa, da sempre frustrato, e da il via al suo “push” rivoluzionario quando tornerà a Barbieland per trasformarla, in assenza di lei, nel regno dei Ken.

Più tardi confesserà a Barbie che comandare non faceva per lui e neppure il patriarcato, al quale aveva già perso interesse quando si era accorto che “non aveva a che fare con i cavalli”.

Il grande assente nella storia è – però – il sesso, o meglio la sua rappresentazione esplicita, come parametro onnipresente delle differenze e dello squilibrio nel rapporto di genere. È assente perché è tradotto in allusioni molto ben mimetizzate, ma indispensabili alla struttura dell’intera storia.

Marca il distinguo tra il mondo femminile e perfetto e quello maschile e greve, con la precisazione – indispensabile nel contatto tra di essi – che entrambe le bambole (di Barbie e Ken) non hanno i genitali, a cui Ken replica bisbigliando a qualcuno fuori campo “io ce li ho, i genitali”.

Colora drammaticamente la reazione degli omoni da cantiere in carne e ossa a questa ammissione di Barbie, quando le rispondono che per loro “va bene lo stesso…” e culmina nell’approdo finale del viaggio a ritroso di Barbie nella sala d’aspetto della “sua” ginecologa.

Sebbene mi risparmi (perché sono in difficoltà, lo ammetto) l’indagine sull’interpretazione di questa chiusura, lasciandola a ciascuno di voi, trovo genitali, ormoni e allusione sessuale in primo piano nella scena del “contro-golpe” delle Barbie per mettere i Ken l’uno contro l’altro, appiccando il fuoco della competizione tra i maschi per le rispettive femmine. È proprio quando ognuna di loro lascia il “suo” bambolo nel bel mezzo della canzone da quattro minuti e trenta secondi che tutti cantano alla “partner” del momento, per andare ad ascoltare quella di un altro Ken, che scoppia il conflitto acerrimo, con le armi giocattolo e i muscoli in vista. Un epilogo impossibile senza i genitali, gli ormoni, il senso del possesso e il bisogno di esibizione di cui sopra.

Mi lascia perplesso anche il ruolo ritagliato, direttamente e indirettamente, alla madre (proprio perché è una madre) di Barbie, in citazioni decisive come quella alla forma dei suoi piedi, destinati a stare sulle punte per rendere naturale indossare sempre le décolleté con il tacco. Persa questa conformazione per l’ingresso del senso di morte nel suo mondo, Barbie stereotipo si trova combattuta nella scelta alternativa di un bel paio di Birkenstock  Arizona marroni che rappresentano l’antitesi immaginale della femminilità, sua e dell’intero genere contemporaneo. 

A proporle il rimedio podologico agli effetti della sua “umanizzazione” è una strepitosa Barbie-Stramba, reietta (ma con leggerezza) nel suo mondo, eppure cercata in ogni variazione imprevista dal copione perfetto di quello stesso mondo; una guru-sciamana sui generis che porta su di sé i segni di un uso “differente” della bambola nel mondo degli uomini (o meglio delle donne).

Sceglierà le Arizona, Barbie, quando deciderà di rimanere a vivere la sua vita in carne ed ossa, e di morire… naturalmente.

Il lato della coscienza femminile si esalta nel lungo “quasi-monologo” di America Ferrera che genera un bel manifesto di consapevolezza e orgoglio, magistralmente reso dal doppiaggio di Letizia Scifoni e diventato il trailer più visto del film, un simbolo.

E un simbolo potrebbe diventare l’immagine iconica e statica di Ken.

Lui, deluso dall’inutilità del suo tentativo di prendere un potere che si stava manifestando in un mondo maschile disordinato, cialtrone e senza regole, in cui il rosa e l’armonia lasciavano il posto a SUV giganteschi e case piene di immondizia sotto ai letti, confessa di soffrire terribilmente per la sua eterna subalternità a un interesse che Barbie non gli darà mai.

La lezione potrebbe essere che – in fondo – muscoli e dedizione cieca non risolvono nulla nel rapporto tra donne e uomini e che occorre cercare ognuno l’amore per sé stesso, prima di chiedere quello di qualcun altro.

Il messaggio è il più alto del film, secondo me.

Resta la genialità del frame in cui Ken indossa una t-shirt con la scritta “I am Kenough” (“io sono Ken-abbastanza…”).

Alla fine, faccio pace con la citazione iniziale di Ruth Handler sulle madri e sulle figlie che sembra dimenticare che anche i Ken (tutti) hanno una madre, che deve aver permesso che scambiassero lo sport, i cavalli, le auto (e le pellicce da rapper-gangsta) per la vita vera.

Insomma, il film mi è piaciuto (ecchissenefrega…lo so) e soprattutto merita di essere visto e non può essere liquidato come una banale scemenza.

Questo rischio si corre, per quanto mi accade si ascoltare, proprio qui da noi, dove maschi in difficoltà, tanto con il modello “pettorali di granito” che con quello “sono abbastanza, senza comprare niente”, reagiscono con imbarazzanti commenti da terza elementare, ma anche meno, alla proposta, spesso femminile, di comprare quel biglietto.

Vedere Barbie può far riflettere molto e condurre, più o meno, dovunque si voglia ed è, quindi, un bella dimostrazione del potere e della magia del cinema e della libertà che ne deriva, qualsiasi cosa abbia deciso chi ha scritto, sceneggiato, diretto e prodotto il film.

Che poi questa Barbie sia un po’ bugiarda, fa parte del gioco e il suo approdo alla conquista della vagina potrebbe far immaginare un sequel un po’ più onesto e il lancio di una nuova “Barbie-dice-la verità”.

Una replica a “Barbie-Bugiarda”

  1. Rieccomi! Margot Robbie ha spaccato anche in quest’altro film: https://wwayne.wordpress.com/2016/08/19/suicide-squad/

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