MISTERI

C’era una volta una casa,

era una casa comune e apparentemente assomigliava alle case vicine, ma – in realtà –  molte cose la rendevano diversa da ogni altra.

In quella casa abitavano un uomo e una donna con i loro quattro figli e alcuni animali, un falco, un gatto e un cane.

Il falco era affezionato soltanto all’uomo, che lo aveva trovato ferito e debole mentre si addestrava all’arte militare nel suo collegio. Quel giorno la aveva nutrito e salvato e da allora aveva stabilito la sua dimora su un grande albero davanti alla stanza dove il giovane aveva il suo alloggio, in quella caserma  grigia e triste.

La storia del falco salvato e fedele era stata raccontata a tutta la famiglia e il rapace era entrato così a farne parte, insieme all’albero e alla stanza triste.

Il gatto aveva assunto molte forme nel corso degli anni, era stato un grosso maschio dal pelo lungo, nero e brillante ed i suoi occhi gialli e fissi l’avevano fatto temere ai bambini ogni volta che entravano in una delle stanze che erano nascoste dentro alle altre stanze di quella casa.

C’era uno di quei luoghi in particolare, che incuriosiva moltissimo i quattro fratelli e un po’ faceva anche loro paura. Era sempre di domenica che organizzavano le loro avventurose ricerche del passaggio che a volte si schiudeva per permettere che entrassero nella stanza segreta.

Di nascosto e senza dare nell’occhio, approfittavano del tempo in cui la loro madre aveva controllato che fossero vestiti per la messa ma non era ancora l’ora di seguirla in strada; silenziosi si dirigevano verso la porta del salone più lontano. Era una stanza né piccola, né grande e piena di mobili, tappeti, quadri e cose curiose, con un divano alto e severo, di velluto rosso con bei bottoni infissi al centro dei cuscini bordati d’oro.

C’era sempre uno strano profumo e c’erano due guardiani distratti.

I due nonni dei ragazzi vigilavano su quella stanza e consegnavano loro un piccolo cofanetto pieno di cioccolatini, se erano disposti ad attendere il loro permesso per entrare; ma una volta il fratello più grande aveva spinto la porta ed era entrato senza aspettare e i suoi tre fratelli lo avevano seguito.

Nella stanza si era aperto un varco e da quello i quattro si erano infilati svelti in un giardino lussureggiante e profumato, al centro del quale un grosso cervo li fissava.

Il gatto nero era piombato su di loro, soffiando e agitando la grossa coda ed i suoi occhi fissi li avevano sospinti indietro, dentro alla stanza dove il cervo era tornato a campeggiare sull’arazzo appeso al muro sopra al divano.

La voce della madre li chiamava, così avevano fatto la strada al contrario ed erano tornati nella larga stanza di ingresso dalla quale lei avrebbe giurato che non si erano mossi.

Il cane era ora piccolo, ora gigantesco e assumeva le sembianze più adatte ai racconti che ne faceva il maggiore di quei fratelli, dal giorno in cui il padre era tornato a casa, dicendo che un’auto lo aveva investito e ucciso. Quel giorno aveva l’aspetto di un piccolo trovatello nero e loro quattro non lo avevano neppure potuto seppellire. Non c’era, come avrebbero voluto, una piccola tomba su cui disegnare una piccola croce con le pietre levigate che avevano raccolto in spiaggia il giorno seguente, così quelle pietre erano rimaste nascoste dentro un cassetto, sotto alle brutte e vecchie cose che erano lì da tempo e nessuno usava mai.

In quel cassetto del mobile rivestito di formica azzurra, c’erano piccole maglie di lana dai colori pastello, per lo più rosa, che la loro unica sorella diceva fossero destinate a lei, prima che morisse e che nessuno ne pronunciasse più il nome. Lei cresceva felice e allegra con il suo amatissimo fratello maggiore che non le chiedeva mai niente di quel giorno, la portava sempre con loro e la proteggeva dalle proteste degli altri due che non avrebbero voluto femmine nelle avventure eroiche che lui organizzava per tutti.

Di solito aspettava che il padre si addormentasse il pomeriggio della domenica o dei giorni di festa, per farli entrare tutti nel piccolo sgabuzzino pieno di cose straordinarie, si infilavano sotto alla pila di vecchie sedie che ogni tanto venivano prese per accogliere gli ospiti e da li ritrovavano il passaggio che li avrebbe condotti nel giardino nascosto.

Lui non aveva mai paura e loro si tenevano prudentemente dietro ai suoi passi per non dover affrontare quelle strane creature con cui parlava senza che la voce tradisse emozioni. Alcuni di quegli esseri erano davvero simpatici e avevano occhi accoglienti, ma a volte ce n’erano di terribili, e i suoni che provenivano dalle loro bocche irte di denti aguzzi facevano molta paura. Ma il loro capitano sembrava impassibile e si rivolgeva loro con decisione e senza esitare, scambiando puntualmente una o più delle pietre levigate con il permesso di proseguire nelle loro esplorazioni.

Gliele avrebbero restituite al ritorno, se avvessero rispettato le loro consegne, senza toccare e portare via niente da lì, come loro avevano imparato a fare.

Solo una volta era accaduto un incidente; il padre si era svegliato prima del previsto e li aveva cercati senza successo, finchè non aveva spalancato la porta dello sgabuzzino e fatto cadere l’intera pila di sedie con un rumore terribile. Rovinando sul pavimento alcune di quelle messe più in alto si erano rotte e una aveva colpito il suo piede che ora era gonfio e blu.

Prima che potesse prendersela con i più piccoli che per primi aveva tirato fuori da lì, il loro capitano si era messo in mezzo e aveva ricevuto un colpo forte sul viso. Li aveva fatti andare al sicuro ed era rimasto lì, ad aspettare la punizione che meritava e che poi aveva ricevuto.

Si svegliò di soprassalto.

Quel sogno era ancora vivido e presente e provò a conservare più a lungo possibile quei ricordi, sentiva profumi e provava sensazioni che credeva di aver dimenticato e avrebbe voluto fare la sua domanda, ma non ne ebbe il tempo e quello che aveva intorno prese il sopravvento.

Ricordò di essere solo e si diresse verso la vetrata da cui vedeva la spiaggia e il mare agitato e bellissimo.

Avrebbe voluto cercare il passaggio e ritrovare quel giardino, dove sapeva essere custodito il segreto che lui solo conosceva, ma non era più successo da quando aveva cambiato il suo nome e iniziato la sua nuova vita.

Nessuno sapeva di quella casa e i suoi fratelli si erano trasformati in statue, proprio come i guardiani avrebbero voluto. In compenso, ogni tanto sentiva la sua piccola sorella cantare e il suo cuore si riscaldava, ma era difficile ascoltarla a lungo perché un’altra bambina gli chiedeva di prendersi cura di lei.

Aveva scavato quella piccola tomba che mancava e ci aveva messo sopra la delicata croce fatta di sassi levigati. Tante volte aveva detto si, a tutti, senza sapere e senza capire, pur di non perdere la loro attenzione e di non rimanere da solo e anche quella volta non aveva ascoltato il suo cuore, ma seguito il desiderio di qualcun altro.

Non si era perdonato e sperava che il perdono arrivasse da sé, come si aprivano da sé i passaggi nel mondo speciale di quella strana casa.

Non aveva mai confessato ai suoi fratelli che da quel giorno aveva paura di entrare nel mondo delle loro avventure e il suo corpo si era trasformato nella sua sola forza.

Ci aveva fatto tanta strada con le sue gambe e aveva abbracciato senza risparmio e senza distinzione con le braccia, aveva preso con le mani piene e adesso sentiva il peso di ogni delusione sulle spalle e ogni singola ferita bruciava in silenzio.

Era da solo perché si era lasciato fare una domanda sciocca e ancora una volta si era fatto colpire in pieno petto ed era fuggito. 

Ognuno voleva qualcosa da lui ormai.

Aveva capito che era lui a farlo accadere, perché lui stesso credeva di aver bisogno di qualcosa da qualcuno; aveva perso la fiducia e non sapeva credere più.

“E poi?”, gli aveva chiesto lei. 

Pensò che aveva ragione e che non avrebbe mai aiutato nessuno, proprio come non era riuscito a fare con la sua sorellina e con i suoi fratelli, trasformati in pietra da tempo.

Sentiva un peso e lo riconobbe, il suo terapeuta lo avrebbe chiamato senso di colpa e gli avrebbe detto di non farsi incantare da lui.

Adesso era sulla riva del mare furibondo e l’acqua salata trasformata in polvere lasciava segni bianchi sui suoi abiti mentre camminava sfidando il vento.

Si sentiva a casa, proprio come in quei viaggi avventurosi.

Non sentiva quasi più quel peso e le sue bambine cantavano insieme al vento, solo per lui.

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